È da pochi giorni in libreria Un paniere di chiocciole di Tommaso Landolfi. Si tratta della riedizione di un volume uscito per la prima volta nel 1968, riproposto oggi nel contesto di una ristampa organica di tutta l’opera dell’autore laziale. Come avverte il sottotitolo, si tratta di Cinquanta elzeviri, pubblicati negli anni Sessanta dal Corriere della Sera; meno chiaro risulta comprendere in cosa consista un elzeviro nel contesto giornalistico. Il termine discende dal carattere tipografico nel quale essi erano composti in origine, quando comparvero sui quotidiani e comunque nella stampa periodica ad alta diffusione: si trattava di pezzi nei quali autori qualificati davano prova delle loro qualità letterarie. Occasione di lettura nella quale l’informazione accettava di fare un passo indietro, riconoscendo l’importanza della scrittura a fianco di quella della notizia.
Il titolo della raccolta riprende quella di uno degli scritti, racconto breve collegato a un’ossessione, dal finale lasciato aperto. Un genere letterario del quale si trovano ormai scarse tracce nel contesto giornalistico. Una è riapparsa di recente su questo giornale, nella forma di racconto del sabato.
La prima impressione che riceve chi legge Un paniere di chiocciole è proprio quella di affrontare una sorta di libro di testo per un corso di scrittura creativa. Nei cinquanta elzeviri raccolti nel volume, Landolfi fa sfoggio di tutte le sue capacità letterarie, da quelle critiche a quelle narrative. Troviamo composizioni umoristiche, ironiche, autoironiche, autocritiche, rosa, noir, fantastiche, realistiche, storiche, politiche, celebrative.
Nell’atto del loro coesistere in un unico volume, affiancati e convocati ad essere letti in sequenza, gli articoli manifestano una loro natura ulteriore, eccedente quella di essere pezzi d’occasione, scritti soprattutto perché nel redigerli scriverli consisteva la professione dell’autore, l’attività della quale viveva. Dopo poche pagine il lettore scopre con evidenza di avere tra le mani un diario, emotivo, domestico, culturale nel quale Landolfi trasferisce, viene da credere persino inconsapevolmente, disagi, frustrazioni, gioie, inciampi e disavventure della vita. Sempre con penna lieve e scrittura potente.
L’uso dell’italiano di Landolfi è infatti raffinato, non barocco o splendido, come in qualche passaggio si rivela quello di Gadda, ma comunque ricercato, attento a non lasciare indietro termini il cui uso si è diradato nella quotidianità, così che la loro riproposizione dà al testo un tono antiquato e insieme denso, capace di cogliere ogni sfumatura materiale e ideale.
Con un linguaggio alto, l’autore parla di sé, dei propri cari e dei luoghi d’elezione della vita. Firenze, dove ha studiato, e poi Venezia, la Liguria, San Remo: i templi del gioco, dal quale riconosce la dipendenza, nella sua forma più pericolosa, quella del giocatore d’azzardo che si siede al tavolo del casino con l’inconfessato, ma evidente, progetto di perdere tutto quello che ha con sé.
L’autobiografia di Landolfi che emerge dai suoi elzeviri è quella di un uomo dalle personalità complessa e dalle felicità diversificate, capace di riflettere sulle origini profonde dei sentimenti come sulla difficoltà di sfuggire ai propri vizzi, con i quali occorre piuttosto saper convivere. Trasferitosi in Liguria, anche per l’attrazione che provava per San Remo e il suo casino, lo scrittore scelse di abitare in una località dalla quale poterlo raggiungere comodamente, ma anche abbastanza distante da non rendere quotidiana la seduta di gioco, che si risolveva sempre in un disastro economico. Per sicurezza, faceva sempre un biglietto di andata e ritorno, così da non rischiare di ritrovarsi senza i soldi per rientrare.
Sergio Valzania